ALVISE
SPADARO

CARAVAGGIO IN SICILIA

1608 il percorso smarrito 1609

La Madonna del Parto

Messina, Museo Regionale

In questo presepe di Caravaggio i personaggi si dispongono in una capanna d’assi e di travi di legno come quella di Rivotorto, dove si era riunita la prima comunità francescana al ritorno da Roma. Capanna rimasta indenne nel tempo con i suoi travicelli, a testimoniare l’umiltà e la semplicità predicate esemplarmente da Francesco il quale, al ritorno da Gerusalemme, aveva evitato di fermarsi a Bologna ed aveva rimprovarato quei frati che, approfittando della sua lontananza, vi avevano costruito un convento in muratura.
Tra Assisi e Padova, Giotto in più di un’occasione aveva rappresentato l’asinello in primissimo piano o al centro del riquadro e così anche Caravaggio, in quell’angolo visibile della capanna, con il bue e l’asino, e con questo a nascondere quello e ad occupare, appena coperta dagli astanti in adorazione, quasi tutto il terzo centrale della tela di circa sette metri quadrati.

Per l’inveterata abitudine di attribuire agli animali pregi e debolezze degli uomini, l’asino è sempre stato considerato paziente, modesto e mite, quindi in perfetto accordo con lo spirito francescano e sulla tela questo suo discreto protagonismo organizzava il rigore di umiltà e semplicità che caratterizzava anche gli oggetti e i personaggi. Sotto il muso degli animali una mangiatoia costruita rusticamente inchiodando tra loro assi di lunghezza e spessore diversi e, a ridosso, con il gomito destro appoggiato al bordo e il Bambino in panni bianchi, trattenuto dalla mano sinistra appena riverso sul seno, la Vergine umilmente distesa a terra, vestita di un abito rosso, col capo velato, parzialmente avvolta da un lungo scialle verde che, salendo lungo la parete esterna della mangiatoia e passando sotto ognuno dei gomiti si svolge fino ad oltre i piedi a coprirla come uno scapolare. L’appoggiarsi sul gomito di questa Vergine siciliana suggerisce una lettura iconologia che, trascendendo le pur vere ed evidenti intenzioni di rendere un carattere di semplicità, avrebbe alluso al mistero della nascita, vale a dire del parto, alla bellezza della Vergine e ancora, per un’insospettata e più antica iconografia, anche a quello della morte. In effetti, in quello che è considerato il capolavoro di Giovanni Pisano, ossia il pulpito della chiesa di Sant’Andrea a Pistoia, lo scultore aveva rappresentato la Vergine che ha appena partorito, mentre le ancelle provvedono a lavare il neonato, nella medesima posizione “recumbente”, ossia semisdraiata ed appoggiata ad un gomito. Stessa iconografia usata anche da Arnolfo di Cambio per le statue destinate alla facciata di Santa Maria del Fiore a Firenze e da Nicola Pisano, maestro di Arnolfo, nei pulpiti dei battisteri delle cattedrali di Pisa e di Siena. Questo tema della Madonna del parto Caravaggio lo aveva già trovato a Messina almeno due volte e sempre in ambiente francescano, ossia proprio in quel convento di San Francesco d’Assisi dove potrebbe aver trovato alloggio e dipinto la tela. La prima immagine in un angolo del chiostro che serbava, tra gli altri, i ricordi di sant’Antuninu, una tavola fatiscente e tarlata di autore francese, ma piena di quella dignità che le derivava dall’essere estremamente antica; l’altra, una copia di buona mano nella seconda cappella di destra dell’attigua basilica, fatta realizzare perché non si perdesse il ricordo dell’originale. Questa copia dell’antica Madonna del parto si trovava quindi nella chiesa di San Francesco che era stata eletta cappella reale, addirittura nel luogo dove, sotto la tribuna, si trovavano sepolti in un antico sarcofago Federico III con i figli Guglielmo e Giovanni vestiti con l’abito del Terzo Ordine francescano, perché proprio in questa chiesa era stata fondata la Confraternita della Madonna del parto. L’oratorio della confraternita, detto volgarmente l’Agonia vecchia, era dedicato alla Madonna dei tre re magi e vi si trovavano numerose statue quasi a grandezza naturale disposte ad illustrare i misteri della nascita, della passione e della resurrezione di Gesù ed in particolare, a grandezza naturale, la grotta di Bethlemme con la rappresentazione dell’Adorazione dei magi. Sembra così che Caravaggio, per dovere trattare l’identico tema, possa essere stato condotto a vedere questa meraviglia nella quale erano rappresentati contemporaneamente tutti i principali misteri della fede e che in particolare abbia soffermato l’attenzione su quelli della nascita e della morte, riservandosi di rappresentare successivamente una resurrezione alla quale aveva solo alluso nella tela siracusana. Infatti riassume il tragico destino della passione nell’atteggiamento di tristezza del volto presago della sua piccola Vergine verso il quale si protende, come per una carezza di conforto, la manina del Bambino. Anche la sua posizione “recumbente” così caratteristica delle statue distese sui sarcofagi etruschi avrebbe alluso alla fine, ma il tragico destino della passione lo scandiva dettagliatamente nella natura morta in primo piano, in basso a sinistra, con gli attrezzi del falegname che si sarebbero potuti mettere in relazione con il mestiere esercitato dal padre putativo di Gesù, se non rammentassero che sono gli strumenti necessari a preparare la croce, sparsi uno a terra, alcuni fuori della cesta, un altro avvolto in un panno candido, forse una tovaglia d’altare, accanto ad un pane, metafora dell’estremo sacrificio per la remissione dei peccati dell’umanità: hoc est corpus. Caravaggio non esprime l’avvenenza di Maria come nella Madonna dei pellegrini o nella Madonna del serpe, opere per le quali, verso la fine del suo soggiorno romano, aveva fatto posare la sua donna, la bellissima Lena. La modella della Madonna del parto e dell’Annunciazione per il duca di Lorena è la stessa piccola siciliana dal viso e dal corpo minuti che Caravaggio distoglie dalla sua realtà quotidiana perché di questa la ritiene emblematica. Ma come a Siracusa Kore era divenuta Lucia, a Messina Afrodite diventa Maria, avendo Caravaggio disposto la sua modella esattamente come l’immagine nuda della dea, custodita ad Urbino e dipinta per Guidobaldo della Rovere da Tiziano di cui si vantava di essere stato allievo Simone Peterzano il pittore milanese protetto dai Borromeo presso il quale il giovane Caravaggio era andato a bottega. Oltre tutto la tela di Tiziano, eseguita nel 1536, era certamente nota al figlioccio cardinale Bourbon del Monte, mecenate romano di Caravaggio, che deve averla avuta sotto gli occhi per lungo tempo, essendosi formato, soggiornandovi fin quasi ai venticinque anni, proprio presso la corte di Guidobaldo della Rovere, assimilandone la cultura.

Tiziano aveva dipinto la mano sinistra della dea sul basso ventre e aveva posto i fiori dove Caravaggio avrebbe posto il Frutto, ossia, immerso nel rosso della veste. Il Fructus ventris di Maria perchè, come sosteneva il cardinale Federico Borromeo, proprietario della celebre Canestra dell’Ambrosiana, non vi è differenza fra fiori e frutti quando si allude alla sacralità del significato che rimane collegato alla simbologia della passione. Quelli dipinti da Tiziano erano rose, fiori quindi che ricordano la corona di spine, e rosse, colore che allude all’estremo sacrificio. Nell’avvenente divinità dipinta da Tiziano – forse anche nel cagnolino accovacciato ai suoi piedi sul giaciglio come metafora del fedele – Caravaggio aveva visto una prefigurazione di Maria tota pulchra. Una particolare lettura suggerita probabilmente anche dall’aver udito il modo coincidente che è usuale ancora oggi in Sicilia di nominare la madre di Gesù: ‘a bedda matri. E di Maria avrebbe fatto un’immagine di Afrodite. Dei quattro personaggi in adorazione con lo sguardo rivolto verso il bambino, tre sono coperti da ampi mantelli drappeggiati ed uno di loro offre la propria calvizie come punto centrale della pala per riflettere la luce, avvolto in un manto color porpora sopra una tunica abbottonata. Questo personaggio sorridente, dalla sobria eleganza, appare ben consapevole di colui al quale si trovi innanzi e allarga le braccia, più che nell’atteggiamento dell’orante, in quello di colui il quale vorrebbe abbandonarsi ad un abbraccio infinito. Gli altri due personaggi: uno in piedi leggermente curvo, è trattenuto al bordone con ambo le mani e l’altro, genuflesso, nella meditata concentrazione nella quale si trova assorto, rivela una notevole profondità di intelletto. Solo il quarto personaggio, al quale i tre si fanno attorno, con la testa leggermente piegata verso l’omero destro, è malamente e francescanamente ricoperto e, tenendo a sé con l’avambraccio sinistro un bastone dall’estremità a riccio, rivela un’aria semplicemente devota e insieme intenerita nella contemplazione di Gesù. Che Caravaggio avesse inteso suggerire un’attinenza fra i tre personaggi ammantati e l’Adorazione dei magi rappresentata nell’oratorio dell’Agonia vecchia, sembrerebbe evidente per l’ostentazione con la quale il personaggio genuflesso che si tiene il ginocchio alzato con la mano sinistra, poggia la punta del piede a coprire interamente un grosso sasso, come quello evidenziato nella tela perché in primissimo piano a destra. La pietra rappresenta la materia e i re magi, ossia maghi, sono alchimisti e, in quanto tali, pretendevano di possedere quelle conoscenze necessarie al controllo, se non addirittura al dominio su di essa. Forse anche i confrati di una confraternita così antica ed esclusiva come quella della Madonna del parto, che ancora più anticamente si chiamava dei Disciplinanti della Grecia, si sarebbero potuti considerare degli iniziati, e Caravaggio, allievo dell’alchimista cardinale Bourbon del Monte, potrebbe aver colto dall’altrettanto antica immagine che avevano fatto riprodurre perché non se ne perdesse la memoria, alcuni significati da risuggerire nella sua nuova tela. Questi re maghi venivano a rendere omaggio a chi dei re è il re in braccio alla Madre, cui è dovuto il saluto di Salve Regina, dal capo avvolto in un velo dorato. L’oro è il simbolo alchemico della regalità e Caravaggio dispone la Vergine sul fieno dorato appoggiata alla mangiatoia che n’era stata ricolma, come un forziere di tesori: nel presepe di Greccio, Francesco aveva celebrato la messa sulla mangiatoia, la Nascita del re povero era stata l’oggetto della sua predica e quel fieno, gelosamente custodito, avrebbe operato miracoli e si sarebbe dimostrato particolarmente utile nei casi di parto difficile.

Bibliografia

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